Francesco Menzio, nacque a Tempio Pausania (SS) il 3 aprile 1899
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Biografia
Trascorse l’infanzia con i cinque fratelli, seguendo il padre nei frequenti spostamenti per lavoro: dapprima a L’Aquila, dove nel 1902 morì la madre, e poi, dopo una serie di altre tappe, nel 1912 a Torino, dove il padre sposò in seconde nozze Argia Avetrani.
Qui Francesco Menzio, terminati gli studi ginnasiali, frequentò per un solo anno l’Accademia Albertina, completando poi la sua formazione da autodidatta, nella ferma determinazione di seguire la propria vocazione artistica. Dopo aver prestato il servizio di leva in fanteria, Francesco Menzio si dedicò difatti con totale dedizione alla pittura, entrando nell’orbita di F. Casorati, di cui, tuttavia, non diventò mai un allievo in senso stretto. Dopo l’esordio a Torino nel 1921, nella mostra allestita alla Mole Antonelliana in dissidio con la Promotrice, con l’inoltrarsi degli anni Venti Francesco Menzio intensificò la sua presenza in manifestazioni locali e nazionali, spesso accanto a Casorati, riscuotendo da subito una discreta visibilità e diversi riconoscimenti: presente nel 1922 all’Esposizione artistica piemontese-sarda ad Alessandria (dove un suo Autoritratto venne acquistato per la locale pinacoteca), partecipò negli anni seguenti alla Quadriennale di Torino (1923), alla II Biennale romana, all’Esposizione di venti artisti italiani a Milano (1924, galleria Pesaro) e alla Promotrice torinese del 1925, dove il Comune acquistò Ritratto della sorella. Anche la seconda metà del decennio fu contrassegnata dalla partecipazione a numerose rassegne, con quadri di figura, nature morte e paesaggi che documentavano un’ulteriore evoluzione della ricerca del M.: fra queste la Biennale di Venezia del 1926, la I Mostra del Novecento, l’Esposizione delle vedute di Torino promossa dalla società Fontanesi (Torino, 1926) e l’Exposition d’artistes italiens contemporains (Ginevra, 1927) dove, presentato da G. Debenedetti, espose diciotto opere.
Il legame con Casorati, inteso anche come esempio di rigoroso esercizio intellettuale, fu determinante nei suoi esordi, anche se Francesco Menzio – «ragazzaccio duro, ironico e refrattario: tutto difese e ripulse», «testimone intransigente e distaccato», secondo il profilo psicologico tracciatone da Debenedetti nel 1927 (Archivi dei sei pittori di Torino, p. 57) – sin dall’inizio lo tradusse in un rapporto di confronto più che di dipendenza, fedele a quel tratto di irrequieta e costante ricerca di autonomia che costituì, secondo diversi biografi, un aspetto peculiare della sua vita e del suo lavoro. Tale tensione appare evidente nella prima produzione di Francesco Menzio che – seppur segnata inizialmente, specie nelle nature morte e nei quadri di figura, dalla lezione di Casorati – evidenzia una rapida emancipazione dalla sua influenza, con opere in cui l’algida purezza formale del maestro appare stemperata in una corposità di colore. Così, se l’Autoritratto (1922: Alessandria, Pinacoteca civica) e Ritratto della sorella (1923: Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea) evidenziano un «ricercato equilibrio tra “casoratismo” e neo-oggettivismo classico-plastico di stampo milanese» (Rosci, p. 22), i Tre nudi, esposto alla III Biennale romana (1925 circa: collezione privata, ripr. in Francesco Menzio, 1987, p. 23), documenta il superamento della suggestione della pittura d’interno casoratiana in direzione di un ammorbidimento dei nudi nel plein air. Negli anni successivi opere quali Natura morta: cavallino (1927: Torino, collezione G. Tinto, ripr. ibid., p. 42) o Signorine (1927: collezione privata, ripr. ibid., p. 44) mostrano invece una crescente attenzione verso i valori cromatici, che si preciserà nel viaggio a Parigi.
In questo periodo di formazione artistica e intellettuale, oltre quelli con Casorati, determinanti si rivelarono i rapporti con una serie di figure di spicco del vivacissimo ambiente torinese, fra cui E. Persico, L. Venturi e R. Gualino, e il coinvolgimento nel movimento di rinnovamento culturale da loro promosso, che confermarono in Francesco Menzio la necessità di un’apertura europea e di un confronto con le correnti artistiche straniere, specie francesi, per superare la crescente marginalità dell’arte italiana. Fu probabilmente proprio grazie al mecenatismo di Gualino che nel 1927 Francesco Menzio ebbe la possibilità di recarsi a Parigi, dove aprì uno studio in rue Falguière e prese parte all’Esposizione di pittori italiani al Salon de l’escalier (1928).
Il soggiorno parigino, che gli consentì un’esperienza diretta e approfondita della pittura impressionista e postimpressionista, sancì una svolta decisiva nel lavoro di Francesco Menzio (Galvano), ponendo le premesse per tutta la futura evoluzione della sua pittura.
Tornato in Italia, nel 1928 partecipò alla Biennale di Venezia – occasione in cui venne annoverato da M. Soldati nelle fila dei neoromantici, promotori di una pittura sentimentale, sensuale, ricca di colore (La Stampa, 4 sett. 1928) – e nel 1929 alla II Mostra del Novecento. Nello stesso anno, tuttavia, Francesco Menzio manifestò in modo evidente il suo discostarsi dalle poetiche novecentiste dando vita al Gruppo dei Sei: il sodalizio, promosso e sostenuto soprattutto da E. Persico, era formato, oltre che dal M., da J. Boswell, L. Chessa, N. Galante, C. Levi, E. Paulucci, artisti accomunati dall’interesse per la pittura francese, da una forte vocazione all’europeismo, inteso anche come atto di libertà intellettuale contro il nazionalismo di regime, e da un’idea dell’arte come spazio di autonomia critica ed etica. Pochi mesi dopo la prima mostra del gruppo, allestita nel gennaio 1929 a Torino (sala d’arte Guglielmi), Francesco Menzio tenne nella stessa sede la sua prima personale, presentato da E. Persico, con opere che confermarono il suo orientamento verso una pittura modernamente declinata nel segno dell’antiretorica e di un lirismo sommesso e pacato. Nei mesi successivi Francesco Menzio prese parte a tutte le altre mostre del sodalizio (1929: Genova, circolo della stampa; Milano, galleria Bardi), ottenendo un implicito riconoscimento di capofila, testimoniato dal ruolo di prefatore nel 1930 della quarta e ultima mostra che vide il gruppo al completo (Torino, galleria Guglielmi), e confermato in occasione della sua partecipazione, sempre insieme con i Sei, alla Biennale di Venezia dello stesso anno, in cui il M. fu il più osteggiato dalla critica di regime. Sebbene a quella data il Gruppo dei Sei iniziasse già a disperdersi, ancora nei mesi successivi Francesco Menzio, recatosi nuovamente a Parigi nella seconda metà degli anni Trenta, continuò a partecipare con alcuni dei vecchi sodali a diverse manifestazioni, fra cui le mostre tenute a Londra nel 1930 (Bloomsbury gallery), a Parigi nel 1931 (Galerie Jeune Europe) e la I Quadriennale.
In questi anni la sua pittura evolveva profondamente, in forme che ne evidenziavano la complessità e l’autonomia di ricerca; dopo il primo soggiorno a Parigi, periodo di meditazione e di produzione scarsa e sofferta, Francesco Menzio si cimentò in un nuovo linguaggio, testimoniato da opere quali Interno (1928: Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea) o Cappello blu (1929: Milano, Palazzo Reale, deposito), caratterizzate da pennellate soffici e da un «disfarsi della forma nella luce» (Galvano, 1940, p. 229), che ebbe qualche punto di contatto con Chessa. Un diverso registro stilistico, segnato anche da influenze matissiane e modiglianesche, emerge invece in dipinti quali Nudo rosa, Figura (con cappello), (entrambi 1929: Torino, collezione privata, ripr. in I sei pittori di Torino 1929-1931, pp. 101, 126), Corridore podista (1930), acquistato alla X Biennale di Venezia per la Galleria nazionale d’arte moderna, o ancora La modella (1931: collezione privata, ripr. in F. M., 1987, p. 58), contraddistinte da un forte appiattimento volumetrico e da un’atmosfera di naïveté. In questi anni fra il 1930 e il 1931, un’ulteriore declinazione della ricerca di Francesco Menzio, segnata da uno sperimentalismo e una irrequietezza pronta «a bruciare possibilità e citazioni quadro dopo quadro, a scapito della sua stessa riconoscibilità» (M.M. Lamberti, in I Sei pittori di Torino 1929-1931, p. 52), sembra invece preannunciata da dipinti quali Natura morta con ciliegie (1931: Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea) in cui la composizione rigorosa ed essenziale lascia spazio agli oggetti rappresentati con contorni più decisi e toni animati e inquieti.
Ormai conclusa la parabola del Gruppo dei Sei, nel corso degli anni Trenta Francesco Menzio continuò a esporre in modo costante nelle maggiori manifestazioni dell’epoca, pur mantenendo le dovute distanze rispetto al regime. Fra il 1934 e il 1935 eseguì degli affreschi di soggetto sacro per l’ospedale psichiatrico di Collegno e per la sua chiesa. Nel 1937, dopo avere realizzato l’anno precedente l’allestimento della sala della Biennale veneziana dedicata all’amico Chessa, scomparso nel 1935, tenne la sua seconda personale a Torino (Sala della stampa). L’anno successivo sposò la vedova di Chessa, Ottavia Cabutti, da cui ebbe tre figli (Paolo, Silvia, morta prematuramente nel 1942, ed Eva). Le personali tenute nel 1937 a Milano (galleria Il Milione), nel 1938 a Roma (galleria della Cometa), nonché le sale personali allestite nell’ambito della XXI Biennale veneziana e della III Quadriennale sancirono definitivamente la sua acquisita e specifica posizione nel dibattito pittorico nazionale.
Nel corso di questo decennio Francesco Menzio individuò i temi a lui più congeniali, attraverso cui declinerà la sua «biografia narrata in pittura» (Fossati, p. 18), con soggetti (interni con figure, paesaggi, nature morte) che si ripeteranno con infinite variazioni sul tema; una scelta legata a quella poetica ricca di «interiorizzazioni psicologiche del quotidiano e soffusi lirismi» che la «critica ha stigmatizzato (e in parte liquidato) definendola degli ambienti e degli affetti» (A.R. Masiero, in Francesco Menzio: autoritratto, 1999, p. 104).
Entro questo orizzonte la ricerca di Francesco Menzio si articolò in percorso di progressiva astrazione e meditato bilanciamento delle varie componenti linguistiche del quadro, esemplificato da dipinti quali Il vaso giallo (1935: collezione privata, ripr. in F. M., 1987, p. 61), che nell’inquieto serpeggiare della pennellata e nell’accensione cromatica evidenzia una sintonia con le coeve ricerche di C. Levi; Primavera (1940 circa), dai toni più chiari e liquidi; o ancora Autoritratto (1943: entrambe Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), caratterizzato da un colore magro e una struttura formale per sintesi abbreviate, che denuncia anche un’attenzione critica verso gli aspetti linguistici meno estremi sia di Corrente che della seconda scuola romana, e già rinvia alla successiva stagione del Menzio.
Durante gli anni bellici Francesco Menzio dovette lasciare più volte Torino: rifugiatosi, dopo il primo bombardamento della città a San Domenico di Fiesole, ospite di F. Carena, nel 1942 si trasferì con la famiglia a Bossolasco, paese natale della moglie. Anche durante quegli anni difficili, in cui il suo antifascismo continuò a non tradursi mai in un atteggiamento di aperto dissenso ma, come sempre, in esplicite rivendicazioni di autonomia culturale e artistica, Francesco Menzio continuò a lavorare ed esporre in modo costante. Il premio Bergamo del 1942, che Francesco Menzio si aggiudicò con La famiglia in campagna, preferita alla Crocifissione di R. Guttuso, siglò un passaggio di ufficialità per la sua ventennale carriera.
Tornato a Torino dopo la liberazione, Francesco Menzio nel giugno 1945 il M. fondò (insieme con L. Einaudi, M. Mila, N. Bobbio, C. Pavese, L. Geymonat, N. Ginzburg fra gli altri) l’Unione culturale, di cui fu il primo presidente, contribuendo attivamente al processo di ricostruzione civile e culturale della città e impegnandosi in varie iniziative, dalla promozione di eventi cinematografici all’illustrazione al teatro (che lo vide scenografo nel 1946 del Woyzech di G. Burchner, primo avvenimento teatrale a Torino nel dopoguerra). Negli anni successivi, tuttavia, il M. tornò a dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura, affrescando anche con Casorati le Storie di s. Caterina nella chiesa di S. Domenico a Cagliari (1956), e con P. Martina il soffitto dell’aula magna dell’Università di Genova (1958).
In questi decenni l’ormai consolidata posizione di «maestro» di Francesco Menzio venne sancita da un’attività espositiva particolarmente intensa, che non conobbe praticamente flessioni fino alla fine della sua carriera, e da numerosi riconoscimenti, fra cui il premio del presidente della Repubblica (1951) e l’elezione ad accademico nazionale di S. Luca (1960). Incaricato, inoltre, nel 1951 del corso di pittura all’Accademia Albertina (cattedra di cui divenne titolare nel 1956), a partire da quella data il M. affiancò all’attività artistica quella didattica, impegno condotto con passione sino al 1969, quando dovette lasciare l’incarico per sopraggiunti limiti d’età.
Nella produzione del dopoguerra Francesco Menzio rimase fedele a una scelta di realismo soffice, riservato, morbido (Fossati), sostanziata tuttavia da un’incessante meditazione sul fare pittorico, come testimoniato, per esempio, da opere quali La cucitrice (1949 circa: Pinerolo, galleria Il Portico, ripr. in Il gruppo dei Sei e la pittura a Torino 1920/1940, p. 268), o Interno con statua e finestra (1951: Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea) in cui le forme si dispongono secondo strutture a intarsio, che evidenziano la capacità dell’artista di gestire in modi non attardati la propria civiltà figurativa (Rosci). Anche se la critica mostrò una certa difficoltà nell’inquadrare la ricerca di Francesco Menzio in questi suoi ulteriori, vitali sviluppi, un’uguale tensione animò tutta la sua maturità che – in una «assorta, progressiva decantazione della sua ormai consolidata poesia delle cose, delle persone, degli ambienti, della natura del Po e di Bossolasco», evidente in opere quali, per esempio, Figura seduta (Milano, Palazzo Reale, deposito), Donna addormentata (1960: collezione privata, ripr. in F. M., 1987, p. 82) o Langhe (1968: Torino, collezione E. Menzio, ripr. ibid., p. 85) – sviluppò la propria ricerca sino ad arrivare a «una struttura sempre più limpida e asciutta di segni e campiture cromatiche» ed «alla straordinaria “magrezza”, al sussurro fantastico degli estremi pastelli di paesaggio» (Rosci, p. 35).
Francesco Menzio morì a Torino il 28 nov. 1979 e venne sepolto a Bossolasco.