Antonio Pedretti, Bianco lombardo, 2013 olio su tela cm. 180×290
Tutto quello che avviene nella pittura di Antonio Pedretti sta nel bianco lombardo. I suoi panorami estesi, o le micro vedute, principiano dal bianco e nel bianco sembrano doversi sgretolare; e uno dopo l’altro nella loro approssimazione a un ideale, nel loro approssimarsi, compongono il paese, la patria del pittore. Come William Faulkner che si inventa Yoknapatawpha, la contea immaginaria del sud degli Stati Uniti in cui vengono ambientati tutti i suoi racconti, ed è una sovrapposizione immaginaria a un luogo reale, così Pedretti disegna una propria heimat, quadro dopo quadro, senza tema di ripetersi, quasi volesse riprodurre, standoci dentro, la mappa 1:1 di quel dato luogo. Ma chi conosce lo scrittore Borges sa il paradosso che contiene questo desiderio descrittivo, poiché ogni mappa 1:1 riproduce il territorio sempre infedelmente, dato che la riproduzione ne modifica i contorni; e chi conosce il filosofo Josiah Royce sa anche che ogni mappa 1:1 dovrebbe contenere una mappa 1:1 che a sua volta dovrebbe contenerne un’altra ed un’altra ancora e ancora… in un regressus ad infinitum, quasi diabolico, senza via d’uscita. La porzione di territorio di Pedretti è un lembo di alta Lombardia, annesso al lago di Varese, tra Gavirate, Bardello e la palude Brabbia, una zona lacustre di pochi chilometri, abitata fin dalla preistoria, gli insediamenti palafitticoli risalgono al Neolitico, che ha resistito alla temperie della contemporaneità, e presenta ancora una vegetazione quasi primordiale, i canneti, le erbe alte, gli alberi svettanti o rappresi a terra nel loro disfacimento, l’accumulo di materiale organico che ne ha fatto e ne farà torbiere.
L’accumulo di materia è una delle caratteristiche della pittura di Antonio Pedretti nel solco della tradizione di un naturismo lombardo che ha antesignani nobili e parenti più stretti, alla Morlotti, ma il gusto espressionista ricorda il quasi coetaneo Anselm Kiefer, il cui impegno è massimamente politico, concentrato su una dolorosa rielaborazione storica, mentre nel pittore varesino questa lunga concentrazione ha tratti soprattutto esistenziali, micro cosmici, se è vero che l’arte, focalizzando un punto, dovrebbe permetterci di guardare al di là di quel punto, il visibile pur piccolo dovrebbe essere semplicemente il supporto dell’invisibile più esteso, l’emanazione specchiata del mistero divino. E quand’anche nelle tele orizzontali il panorama si apre, dai boschi dipinti in primissimo piano si passa a una vasta pianura scialba, il tono non muta: cieli lividi, livido il terreno, come non esistesse altro colore che un sovrastante bianco sporco. Le colature sono il residuo di questo lavorio di erosione, i residui di un corpo a corpo tra sé e il fuori di sé, tra l’oggettivo e il soggettivo, tra l’essere e il nulla, tra la possibilità di rappresentare e il fallimento che sottende ogni cominciamento. Così si esprimeva Eliot nella sua “Terra Desolata” che per altri versi assomiglia a quella di Antonio Pedretti, poetica, ma non lirica, colta nel suo tragico sprofondare.
Angelo Crespi, dal catalogo Ai margini del bianco – Palazzo Ducale Genova 2018
Provenienza: Studio del Maestro Antonio Pedretti, Galleria MAG Como
Pubblicazioni: Svariati cataloghi di mostre personali e riviste
Con certificato di Archiviazione dell’Archivio ufficiale Antonio Pedretti
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